lunedì 29 agosto 2011

Suits

Un paio di post fa ho nominato questa serie come una da tenere d'occhio, avvertendo che si trattava di un procedurale e che non era caciarone come Franklin & Bash. Ora, arrivata al decimo episodio della prima stagione e con una seconda già approvata per l'estate prossima, posso dire abbastanza con sicurezza che Suits ha del potenziale da vendere. Ho letto qui una buona analisi dell'ultima puntata andata in onda, di gran lunga la migliore della stagione, e mi ha fatto riflettere un po'. Innanzitutto, i legal drama mi piacciono molto, così come amo i legal comedy (me lo sono inventato ora) come appunto Franklin & Bash, o come ai bei tempi Ally McBeal, quindi li guardo sempre volentieri anche quando non c'è traccia di orizzontalità (i vari Law & Order per esempio). Ecco, ho capito che Suits di legal ha veramente poco. Ok, i protagonisti sono avvocati, gli argomenti sono quelli lì, casi della settimana, mancano solo i tribunali, che se ne vedono pochi perché qui siamo nel mondo dei corporation attorneys, che più altro maneggiano numeri e contratti milionari e sostanzialmente “patteggiano”. Al momento, Suits viaggia su due binari: può rimanere una serie media, un passatempo settimanale estivo, oppure evolversi e diventare una gran prodotto. Il decimo episodio è stato decisivo.
Andiamo con ordine: siamo a New York. Mike Ross è un twentysomething che per mantenersi si finge studente e sostiene gli esami universitari al posto degli studenti veri, che poi lo pagano. Come fa? Ha un'intelligenza fuori dal comune, aiutata da una grande memoria fotografica. Ha sempre sognato di terminare gli studi e diventare avvocato ma anni prima l'hanno cacciato dal college. Per una serie di circostanze un giorno si ritrova in un hotel dove si stanno svolgendo dei colloqui per il posto di associato per un grande studio legale e si infila nella stanza dell'esaminatore. Sostiene il colloquio, lo supera ampiamente ma ammette di non essere mai andato alla scuola di legge, in più quello studio assume solo laureati di Harvard. E qui la sua vita cambia: il tizio che gli fa il colloquio è Harvey Specter, che decide di assumerlo lo stesso, convincendolo a mentire sul titolo di studio. Lo dico ora: Harvey è un Personaggio di quelli che ti rimangono impressi e vorresti incontrare chi se l'è inventato per stringergli la mano. Praticamente? Coolness a fiumi. Determinato, sicuro, bello, furbo e stronzo come pochi, il tutto condito da un carisma enorme, un senso delle regole tutto suo e un possibile ghost che ancora dobbiamo scoprire ma è nell'aria. Da lì in poi, la serie si gioca sostanzialmente su casi della settimana, con Harvey-mentore e Mike che cerca di non farsi sgamare. A questo punto io seguivo con interesse ma neanche più di tanto. Sì, belle storie, personaggi non male, ma mancava qualcosa. Che è arrivato. Nel decimo episodio i due si scontrano apertamente. Mike vuole sapere perché Harvey, che è uno che sostiene di badare solo a se stesso e ai suoi interessi, si premura tanto per lui. E Harvey risponde una cosa che mi ha spiazzato. Che non vi dico. Perché va bene annunciare lo SPOILER però quella è una scena con la S maiuscola e Harvey praticamente risponde con un gesto (non un gestaccio) che è indescrivibile (ma l'ho tumblerato qui). Va visto. E soprattutto in un minuto di dialogo è venuto fuori il concept della serie, che fino a quel momento mi era sfuggito e quando gli sceneggiatori si inventano ste cose a me commuove sempre un po'. Però posso dirvi la sostanza. Suits è questo: l'importante è raggiungere il proprio obiettivo, anche giocando sporco e rischiando, perché l'unica cosa che conta è il prestigio che ne deriva, non come ci si è arrivati. O almeno, Suits dovrebbe essere questo, in parte lo è, in parte no.

Gli autori sono a un bivio: continuare con il legal, condito da soldi, belle donne, completi (i suits del titolo) di Tom Ford da 12000 dollari (quelli di Harvey of course), macchine con autista (sempre di Harvey) e superattici di lusso (Harvey...), oppure puntare tutto sui personaggi. Portarli alle estreme conseguenze (che se no verrebbe meno la premessa: perché sbattersi a pensare a un protagonista buono ma con una finta laurea e quindi in un certo modo corrotto? Se ce l'aveva ed era semplicemente un neoassunto un po' ingenuo con un capo stronzo andava bene uguale). L'anima di questa serie è il confronto fra Harvey e Mike, il primo, sempre perfettamente impeccabile, che non si vergogna di far giochetti per arrivare in alto e l'altro, sempre perfettamente fuori posto, che invece si vergogna ma gioca sporco lo stesso. Anzi, la sua bugia è più grave di quelle di Harvey che più che altro è un generatore automatico di favori: aiutare qualcuno non per aiutarlo davvero, ma perché quel qualcuno dopo ti dovrà un favore che tu potrai sfruttare. Insomma, mancano due episodi alla fine della stagione, speriamo in bene e profonda invidia per gli autori che hanno in mano qualcosa di davvero buono. Com'era il proverbio? Chi ha il pane non ha i denti? Ecco, autori non sputtanate questa serie per favore, che nel caso ho già ho il lancio per la seconda stagione:
Suits: la versione cattiva di White Collar”.
E viva il bromance.
Postilla: comunque vale la pena guardarlo solo per la soddisfazione di diventare fan dei capelli di Harvey su facebook.
Chi c'è:
Gabriel Macht è Harvey e ce lo ricordiamo in poche cose, ma soprattutto era l'amico e convivente di John Travolta in Una canzone per Bobby Long e io non l'avevo mica riconosciuto da quanto è diverso.
E poi c'è Gina Torres, nota a noi nerdoni per aver fatto Firefly.
Mike è la prima volta che lo vedo, credo.
Rachel, possibile love interest di Mike e paralegal nello studio, l'abbiamo già vista in Fringe.

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